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L’ARBITRATO ISDS NEL TTIP: LA PROPOSTA DI RIFORMA E’ FUMO NEGLI OCCHI

di Stop TTIP Italiaisds

La Commissione Europea ha presentato martedì la propria posizione sulla riforma dell’ISDS, il meccanismo di risoluzione delle controversie fra investitori e Stati che intende includere nel TTIP. Le modifiche proposte non rimuovono i gravi rischi democratici, sanitari e ambientali che questa clausola scarica sui cittadini contribuenti. E non risolve la questione: un ISDS, riformato o no, non serve tra due Paesi, come UE e Usa, che hanno una giurisprudenza efficiente e funzionante.

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La Commissaria europea per il Commercio, Cecilia Malmström, ha reso pubbliche le correzioni all’ISDS (Investor to State Dispute Settlement), clausola richiesta a gran voce dalle lobby dell’industria transatlantiche fin dalle prime battute del negoziato TTIP. L’ISDS consente il ricorso a corti di arbitrato internazionale da parte di gruppi privati, qualora vedessero i propri investimenti messi a rischio da provvedimenti cautelativi varati dai governi in USA e UE. Contro questo sistema, che fornisce alle aziende uno strumento per costringere il pubblico a pagare cospicui indennizzi o rinunciare alla legislazione più restrittiva, si sono espresse nel 2014 quasi 150 mila persone, il 97% dei partecipanti a quella che è stata considerata la più ampia risposta ad una consultazione pubblica lanciata dalla Commissione Europea. Di fronte all’insurrezione pubblica, l’esecutivo comunitario è rimasto spiazzato, ma non intende rinunciare al meccanismo nel TTIP. Così, la bozza di riforma Malmström tenta di addolcire un boccone che resta invece troppo amaro da mandare giù. La Commissaria propone l’obbligo per gli investitori di scegliere tra le corti nazionali e l’arbitrato, di istituire un secondo grado per eventuali ricorsi, una lista fissa di arbitri e qualche tutela in più sul diritto a legiferare (right to regulate). Lascia poco tranquilli anche l’idea di riformare l’ISDS a partire da quello inserito nel CETA. Le criticità, infatti, restano tutte, visto che:

la possibilità di scelta consentirà comunque agli investitori esteri di aggirare la giurisdizione nazionale. Con la paradossale situazione che mentre le imprese estere potranno riferirsi sia alle corti giuridiche convenzionali che all’arbitrato, quelle locali e nazionali potranno fare riferimento solamente a corti convenzionali, creando la paradossale condizione di un vantaggio competitivo per le aziende estere.

– L’ISDS resterà uno strumento unidirezionale, ad uso e consumo dei privati. Un sistema in cui lo Stato può soltanto difendersi.

– Manca totalmente nel capitolo sugli investimenti del CETA, l’Accordo di libero scambio con il Canada, un riferimento al diritto di legiferare per i Governi.

– Concetti chiave come il “trattamento giusto ed equo”, utilizzati in maniera estensiva dagli investitori per attaccare le politiche pubbliche con l’ISDS, nel CETA vengono addirittura potenziati: si parla infatti esplicitamente di proteggere le loro “legittime aspettative”, altro concetto vago e strumentalizzabile.

– La proposta della Commissione di assicurare l’indipendenza degli arbitri nell’ISDS inserito nel TTIP è anch’essa una mistificazione. L’elenco di nomi può tranquillamente essere stilato dalle parti contraenti in modo da farvi rientrare elementi che fino a ieri hanno favorito gli investitori con i loro verdetti.

Il meccanismo di appello potrebbe non vedere mai la luce. La Commissione lo aveva garantito anche nel CETA, così come gli Stati Uniti lo promettevano nel NAFTA. Eppure non è mai stato introdotto.

Inoltre un elemento sostanziale di tutta la riflessione è che non serve un arbitrato di tutela per gli investimenti, soprattutto per due Paesi, come Stati Uniti e Unione Europea, che hanno una giurisprudenza ben funzionante e assolutamente in grado di tutelare gli interessi delle imprese, senza per questo indebolire le tutele e i diritti collettivi. Oltretutto nel pieno rispetto dell’equilibrio dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). Oltretutto la riforma dell’ISDS proposta da Malmström richiederebbe tempo per la realizzazione. Un tempo che le parti non sembrano avere, data la fretta con cui tentano di chiudere il negoziato. Ma il cosiddetto “elefante nella stanza” è proprio l’inserimento di una clausola ISDS all’interno di un trattato bilaterale USA-UE: non esistono argomentazioni valide per l’inclusione di un simile meccanismo nel TTIP. Le corti nazionali, infatti, non presentano un livello di compromissione tale da giustificare il ricorso a organismi terzi, né il flusso di investimenti oggi è frenato dalla mancanza di un ISDS.

Anzi, la tendenza che si sta affermando è contraria: sono sempre di più gli Stati che rifiutano di siglare accordi contenenti l’ISDS. Addirittura li rescindono, come è accaduto proprio all’Italia nelle scorse settimane, quando è divenuta di dominio pubblico la notizia che il nostro Paese uscirà dal Trattato sulla carta dell’Energia a seguito dei ricorsi da parte delle aziende che avevano investito nel fotovoltaico e beffate dai tagli retroattivi ai sussidi. Un ricorso sacrosanto (data l’infausta scelta promossa dallo Spalma Incentivi) ma che poteva essere comodamente presentato ad una corte nazionale e senza scopo di lucro. L’Italia non è l’unica nazione a fuggire l’ISDS: Indonesia e Sudafrica, per citarne altre due, nel 2014 hanno rescisso accordi bilaterali con Olanda e Germania. Dovranno attendere rispettivamente 16 e 20 anni per cacciare gli investitori di quei Paesi dai loro confini: i trattati sottoscritti, infatti, forniscono massime tutele per le aziende esportatrici. Un obbligo cui non potrà sfuggire nemmeno il nostro Paese, se è vero che l’annullamento dell’Energy Charter Treaty stabilito quest’anno diverrà effettivo solo nel 2035.

Per ultimo, va sottolineato che una revisione strutturale non risolverebbe i problemi perché non andrebbe a toccare le regole che ispirano gli arbitrati. All’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) esiste un tribunale specifico di risoluzione delle controversie, il Dispute Settlement Body (o DSB), a cui si possono rivolgere Governi membri della WTO denunciando altri Paesi membri se sospettati di mettere in campo politiche “distorsive” del mercato.
Ma la giurisprudenza ha mostrato come, sebbene in questo caso non siano gli investitori privati ma gli Stati a riferirsi al DSB (con quindi una forte componente “pubblica”), molto spesso sotto accusa siano finite questioni al limite del diritto di tutela dei consumatori, come il blocco da parte europeo della carne agli ormoni statunitense, che per anni ha imposto all’Unione europea compensazioni commerciali per centinaia di milioni di dollari sottoforma di dazi americani in entrata alle nostre produzioni alimentari. La scelta di tutelare i consumatori europei, insomma, per la WTO è banale “distorsione del mercato”.

E non è neppure vero che cambiando la struttura si assicura il diritto di regolamentazione da parte degli Stati (Right to Regulate): la Provincia canadese dell’Ontario ha dovuto cambiare una legislazione di incentivo alle produzioni rinnovabili (Feed in Tariff) dopo che il Canada è stato deferito davanti al DSB da Giappone, Unione Europea e Stati Uniti per aver favorito forniture e occupazione canadese. Dopotutto, a causa di concetti fondanti della WTO e dei vari trattati di libero scambio (tra cui il TTIP e il TPP) come il “Trattamento Nazionale”, agli Stati non è consentito favorire le proprie economie locali e nazionali rispetto ai mercati globali. Un buon spunto di riflessione per i promotori della cosiddetta “filiera corta”.

7/05/2015

da www.stop-ttip-italia.net

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