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IL BAMBINO CRESCE NELLA DECRESCITA…

di Marco Geronimi Stoll

Un ex pubblicitario “pentito” ci spiega i meccanismi con i quali i media ci inculcano il consumismo, partendo fin dalla tenera età. E come il consumismo agisca sui bambini riducendo e comprimendo le loro abilità, con l’obiettivo di crearsi i clienti del futuro. La decrescita appare come una risposta economica e culturale per migliorare il percorso di crescita dei nostri figli.

In quaranta anni di carriera mi sono dedicato alla scuola e all’animazione sociale per i primi 25. Poi, visto le vicissitudini del mio paese, l’Italia, ho dovuto ri-inventarmi nel settore privato. Sono stato pubblicitario e da una dozzina d’anni sono un pubblicitario disertore, uno a cui non piace condizionare la gente al consumismo, ma che per mestiere ha conosciuto molte tecnicuzze che vi convincono a desiderare quello che non vi serve. La cosa più sconvolgente, vi assicuro,  è scoprire concretamente l’entità dei budget spesi nell’advertisement (quasi tutto televisivo) in questi ultimi decenni. Un minuto sulle sei principali reti italiane costa quanto lo stipendio di tutta la vita di una maestra; ciascun italiano, al termine di una vita ha pagato indirettamente (nascosto nel prezzo delle merci) il costo di una discreta casa.

Oggi, per mestiere, aiuto le organizzazioni della decrescita (enti, associazioni, movimenti ed aziende dell’altra economia come contadini bio, artigiani del riciclo, installatori solari…) a comunicare senza marketing. Questi imprenditori scommettono la vita per sviluppare forme sostenibili di economia. Li conosco bene, li stimo, vedo che fanno molto sul serio; sono forme di economia che reggono discretamente alla crisi e, tra tutte le forme di investimento per creare un posto di lavoro, quasi sempre sono la più economica in rapporto ai risultati. Tuttavia occorre restare guardinghi: «economia» e «sostenibilità» sono parole trabocchetto, ci sta dentro tutto e il contrario di tutto. Serge Latouche sostiene che «sviluppo sostenibile» è un ossimoro perché non possono davvero convivere contemporaneamente la crescita industrialista e la sostenibilità ambientale. A dimostrazione di questa tesi ricorda i mille esempi in cui orribili delitti ambientali, che hanno prodotto scempi inenarrabili e migliaia di morti, sono stati perpetrati da brand che nel marketing vantavano e promuovevano lo sviluppo sostenibile, spesso con finanziamenti o permessi di natura ecologica da parte dei governi e degli organismi sovranazionali. Invece la decrescita felice, o serena, o la semplicità volontaria… nella tesi di Latouche, non sono ossimori. (…)

L’ossimoro è una delle forme più potenti per aggirare le difese della vostra mente, perché prende due categorie che la mente conosce già,  ad esempio giovinezza e vecchiaia, e le combina ad esempio dicendo che quel ragazzo è già vecchio, o che quell’adulto è un bambino… Quando su un gelato freddo metti una marmellata calda si aprono le papille gustative e l’olfatto. Davanti all’ossimoro accade una cosa simile, la mente apre le difese; può entrarci il male del marketing o il bene della poesia. Come pubblicitario ed ecologista dovrei dar ragione a Latouche, ma in termini di arte e poesia dovrei dire il contrario, l’ossimoro vero è quello che fa fare uno scarto mentale evolutivo, sovverte le categorie del pensiero e genera nuovi modi di vedere le cose. Nuovi frames, nuove cornici mentali, ciò che Latouche chiama “ricontestualizzazioni”. Sappiamo tutti che questa è la cosa più importante. Fa la stessa cosa che può fare un insegnante quando vuole intuire, di un dato concetto, quale competenza a monte è stata condizionata dal marketing, quale immaginario artificiale è stato indotto. Semplice. Digita la parola su Google e guarda le immagini che escono. Sarà forse empirico, sarà euristico, eppure funziona. Anzi, forse proprio per questo funziona.

Ecco quello che succede digitando sviluppo sostenibile (…) Tre cerchi si intersecano: sociale, ambientale ed economico. Tre aggettivi: di cosa? Di sviluppo, naturalmente. Allora facciamo la stessa operazione googlando «sviluppo». Ecco ciò che esce. Un sacco di diagrammi e frecce economiche che salgono; c’è anche qualche qualche pianta, qualche pianeta Terra, ma purtroppo se li cliccate finite quasi sempre nel green washing di qualche corporation. Somiglia a quando digitate «Crescita» o «Progresso»: frecce e grafici che raccontano un aumento, quasi sempre economico. Anzi, lo promettono, perché sono intrise di quell’ideologia sviluppista del secondo novecento, quella che diceva che l’economia gira se produciamo e consumiamo di più. Ancora oggi molta gente la pensa così: il senso comune è un prodotto artificiale indotto dal marketing, e più in generale dai media di massa quindi: sei più ricco se spendi, l’economia gira se sprechiamo risorse, sei autorevole se ti indebiti, ecc. (…)

Così dev’essere, la questione non è solo economica ed ecologica, è anche psicologica e culturale: abbiamo bisogni indotti, abbiamo inferiori sensibilità, ci sentiamo meno belli, siamo perennemente inappagati. Noi pubblicitari sappiamo esattamente come funziona questo meccanismo: sappiamo come farti sentire a disagio col bellissimo vestito dell’anno scorso, farti sentire ammirabile se giri con un Suv da 8 Km/litro, farti sentire una cattiva mamma se non propini al bimbo l’ultima chimicaglia alimentare… Fior di miliardi sono spesi per convincervi, tanto li pagate voi: sono una percentuale parassitaria nascosta nel costo delle merci. Il marketing allunga la filiera perché fa parte della filiera. Ecco perché marketing e filiera corta non vanno d’accordo. Ecco perché se lasciamo l’insegnante solo, a far da unico baluardo culturale davanti a questa potenza di colonizzazione dell’immaginario dei bambini, è una formica che combatte contro un elefante. Di tutto quel che c’è nel carrello, poco resta nel vostro corpo; ma quel poco diventa ciccia, mentre la pubblicità vi impone di essere magri. Schizofrenia indotta: è un ottimo affare; ma non per voi che pagate due volte, per ingrassare e per dimagrire, mentre anche il diagramma dell’autocompiacimento crolla a zero. Il resto di tutti quei chili di merce è tutta roba che finisce in pattumiera.

Già dagli anni ’80 nelle scuole si cercava di correre ai ripari. Le tre R, forse le avete imparate alle elementari: Riusare, Ridurre, Riciclare. Questo ha permesso in pochi decenni di passare alla raccolta differenziata in tutta Europa. In Italia meno, in molte zone c’è ancora una lotta contro la mafia che gestisce le discariche e/o contro i politici corrotti che vogliono fare altri inceneritori (…). Negli anni ’80 quando le municipalità stavano passando dalla raccolta generica di rifiuti alla raccolta differenziata, sono stati spesi molti soldi in pubblicità (quello che allora si chiamava «marketing sociale»)  con esiti scarsissimi; quando invece sono venuti nelle scuole gli animatori a lavorare coi bambini, i bambini hanno sensibilizzato le famiglie e
rapidamente i comportamenti sono cambiati (…). Le tre R però non bastavano. Hanno cominciato a nascere delle quarte R, diverse in diversi contesti: ricomprare, ripensare, riparare, rispettare… La questione è che le famose 3 R sono subordinate alla motivazione, alla coscienza, ad aspetti psicologici e sociologici. Il rifiuto, prima che un sacchetto di materia da conferire in qualche bidone, è un luogo della mente; c’entra col rimosso. Questa è una parte importante della sfida per l’educatore. Si slitta subito verso il rifiutare: cos’è lo sporco e il pulito, il nuovo e il vecchio, e ancora: il conservabile, l’utile, il bello…; in definitiva, cosa accogliamo e respingiamo negli spazi sempre più pieni della nostra casa,  metafora del nostro corpo e della nostra mente sempre più intasati.

Veniamo programmati per essere persone di plastica tutte uguali, che si differenziano per qualche abito esteriore. (…) Più siamo omologati esteriormente, più la nostra parte singolare resta inespressa, nascosta, quindi potenzialmente repressa e nevrotica. Purtroppo la capiscono assai meno molti politici e  giornalisti. I marketer la capiscono meglio di tutti, ma in malafede. Per fortuna non ci lasciamo programmare troppo, e funziona sempre meno via via che i personal media prendono posto ai media di massa. Le tre o le 4 R non ci bastano se non ci poniamo il problema di che cosa sente e desidera, di che abitudini prende un bambino che cresce nel consumismo. Quante volte avete messo il bambino piccolo nel carrello?  Per lui è uno spasso, a voi va meglio perché va in trance e non fa troppe bizze per comprare qualcosa. Naviga in un paesaggio di merci, in un universo di merci, nel carrello assieme alle merci; lui piccolino, in un’età in cui sente che le cose hanno un’anima, le scatole diventano quasi dei fratellini. Ovvio: impara che anche lui è una merce. Da grande cercherà di essere il brand di se stesso per «posizionarsi»  sul mercato della visibilità. Le merci viste da un bambino sugli scaffali sono magiche, divine. Non hanno una storia né nel prima (processo di produzione) né nel dopo (pattumiera…). Sono fuori dal tempo, perché non ci sono stagioni. Sono fuori dallo spazio: è indifferente che quel frutto venga dall’Australia o da dietro casa. Nascono dal nulla: il pollo nasce già incellophanato per partenogenesi nel banco frigo;  è proprio inconcepibile pensare che sia mai stato un animale vivente, di quelli che ti guardano negli occhi, fanno la cacca, vorresti toccare ma scappano… Un bambino che mangia junk food davanti alla Tv: c’è una sinergia profonda tra la Gdo (grande distribuzione organizzata) e televisione. Il consumo è legato al condizionamento della Tv (e diminuisce via via che subentra internet). La Tv è molto meno potente di pochi anni fa, ma è ancora piuttosto pervasiva; il condizionamento non nasce solo dalla pubblicità, tant’è che colpisce anche in paesi dove la pubblicità per l’infanzia è regolata.

Depriva il bambino di cinque abilità. Uno, la possibilità di diventare anche emittente: riceviamo moltissimi input (un’overdose quotidiana di stimoli, dati, informazioni…) ma degli output che vogliamo emettere non frega niente a nessuno.
Due, la capacità di affinare i sensi. Due quelli diversi dalla vista: senza di essi non esiste il piacere delle cose materiali. Consumiamo molta merce pessima perché non discerniamo le qualità; anche quando consumiamo cose buone (cibo, tessili, arredi…) spesso lo facciamo senza assaporare, senza discernere…senza piacere: ma che razza di edonismo è? Per godere la differenza tra una mela bio e una industriale bella ma insipida, occorre ri-imparare a sentire. Tre, l’empowerment. La sensazione di poter agire sul mondo è indispensabile per la democrazia. Senza di essa capita di decidere in modo rapsodico e distratto, ad esempio ci si comporta col voto come se fosse un telecomando. È il vecchio ma ancora attualissimo concetto di empowerment, che nell’era di internet e della democrazia dal basso torna centrale. Il contrario di empowerment è la marginalizzazione, l’impotenza, la sensazione che quello che dici non interessa a nessuno (…) Quattro, la capacità di star soli in silenzio. Poi c’è il problema della capacità di stare da solo. Esposti al flusso potente dell’informazione abbiamo tutti paura del silenzio, della pausa, del rallentamento: eccitati e drogati dall’accelerazione appena rallentiamo il vortice delle emozioni  e si calmano le acque, vediamo cosa viene a galla; spesso non vogliamo vederlo. Abbiamo panico, dobbiamo riempire, saturare, la nostra agenda diventa bulimica. Ma questo impedisce di far progetti a lungo termine e spesso ci porta a scelte superficiali, effimere, senza la capacità di ascoltare nel profondo le nostre istanze psichiche. Cinque, la capacità di pensare insieme. Ci ricordiamo di essere stati animali sociali solo quando qualche riduzionista dice che ci serve un bel maschio alfa per rimetterci tutti in riga. No, parliamo di tutt’altro, è vero che abbiamo anche sensibilità collettive, è vero che tuttavia educhiamo principalmente quelle individuali. Qualsiasi insegnante conosce l’effetto pigmalione, quando il bambino si adegua inconsciamente alle aspettative, quando diventa motivato o indisciplinato semplicemente perché tu ti aspetti che diventi motivato o indisciplinato.
Anche i pubblicitari conoscono benissimo questo meccanismo: tutti comunichiamo reciprocamente tempi, motivazioni, rabbia, gioia, dolore, ansia, passione, stanchezza, entusiasmo… tutti con tutti. Ma se il bambino non sviluppa competenze sociali, sarà poco abile, più solitario o gregario.

Morale: Servono altre erre. Ecco che le 3 o 4 R non bastano, servono più  item. Latouche ne elenca 8 che secondo me sono molto interessanti per la scuola, perché mettono insieme sia gli aspetti specificamente ecosistemici che quelli psicologici e sociali delle condotte e delle motivazioni quotidiani. Eccole.

1. Riciclare
2. Riutilizzare
3. Ridurre
4. Ridistribuire
5, Rilocalizzare prodotti e  decisioni
6. Ristrutturare i rapporti sociali e gli stili di vita che si sono guastati
7. Rivalutare
8. Ricontestualizzare

Propongo di chiudere sulle ultime due (…)
7. Rivalutare. Restituire dignità ai valori umani. L’altruismo contro egoismo, la cooperazione vs la concorrenza, il piacere del tempo libero vs ossessione del lavoro, la vita sociale vs consumo effimero e individuale, il locale contro il globale, il bello contro l’efficiente, il ragionevole vs razionale…
8 Ricontestualizzare. Vedere da un altro punto di vista il contesto concettuale ed emozionale di alcune situazioni, per mutarne il senso. Esempio: «scarsità e abbondanza» in economia  fondano l’immaginario economico. L’economia attuale trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza e bisogno. Ricontestualizzare questo concetti significa mutarne il senso.

Credo che il lavoro da fare oggi sia proprio sul senso imprevisto dei contesti che conosciamo. Non è a caso che molti dei contenuti che vi propongo risalgono agli anni ’70 e ’80, nell’era della tecnologia analogica, prima della moda neonozionistica e pseudo-aziendalistica che colpì la scuola (almeno quella di noi italiani) dalla fine degli anni ’80. C’entra colla nuova era digitale. Oggi il bambino fa esperienza di prodigi virtuali e si impossessa di formidabili protesi tecnologiche; noi diciamo che è bello, che è cognitivamente evolutivo, ma solo a un patto. Solo se non coincide con la deprivazione dell’esperienza fisica, materiale, concreta, corporea. Altrimenti avremmo mezzo bambino genio e l’altra metà con handicap sensoriale. Un bambino «intero», tanto più ha esperienze virtuali, quanto più ha bisogno di correre, toccare, danzare, manipolare, sporcarsi, urlare, sudare… il bambino per essere adeguato ad alti livelli tecnologici ha bisogno di esperienze primitive. Evitiamo di tenerlo in un mezzo banale, poco digitale e poco analogico, cioè con pochi massimi tecnologici e pochi minimi tecnologici. Piuttosto andiamo contemporaneamente ai due estremi, esageriamo. È meglio.

(L’articolo completo è su geronimi.it: si tratta in realtà di una relazione preparata per un convegno internazionale riconosciuto dall’Unesco e promosso dall’università svizzera, http://www.supsi.ch/dfa e www.globaleducation.ch)

26/10/2012

da www.geronimi.it

 

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