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ASCANIO CELESTINI: “L’ITALIA? STA MIGLIORANDO, MA NON SI DICE”

16 luglio 2015

di Francesco BevilacquaAscanio Celestini

Un incontro (e videointervista) con Ascanio Celestini, in occasione della sua partecipazione al Festival della Lentezza, la festa che celebrava i dieci anni di vita dell’Associazione Comuni Virtuosi. Il suo pensiero sulla vita, l’economia, la società, la decrescita.

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Incontriamo Ascanio Celestini alla Reggia di Colorno, poco prima che salga sul palco per il suo spettacolo “Racconti d’estate. Fiabe per adulti che volevano essere bambini cattivi”. Siamo alla festa dei dieci anni di attività dei Comuni Virtuosi, una grande kermesse che vuole celebrare un decennio di crescita e successo, ma soprattutto un modo di vedere la vita slow, rilassato, riflessivo, consapevole. È il Festival della Lentezza. «Per me la lentezza non è niente, se è decontestualizzata non esiste», ci dice Ascanio parlando del senso di questo Festival. «Se sono in auto e rimango bloccato nel traffico della tangenziale ho un problema e la lentezza diventa un tempo negativo in un luogo pessimo». Non fa una piega! Ma cosa succederebbe se la mettessimo in contrapposizione con la velocità, rispetto allo spazio? «Io vengo da una zona di Roma vicino a Ciampino. L’aeroporto, un tempo poco utilizzato, ha avuto un boom di traffico da quando hanno cominciato a viaggiare le compagnie low cost. Io ho amici che spesso volano a Dublino o a Belfast nei weekend per passare delle serate al pub: vanno dall’altra parte dell’Europa per fare le stesse cose che fanno qui e ci mettono meno tempo a fare il tragitto Italia-Irlanda in aereo che quello per arrivare in macchina a Ciampino da Marino o da Grottaferrata».

colornoCosì, siamo arrivati al punto in cui lo spazio si è azzerato, una condizione in cui dobbiamo aumentare sempre di più la velocità per diminuire i tempi di percorrenza. «In questa maniera però bruciamo tutto quello che c’è in mezzo: conoscenze, persone, relazioni. Rimane solo un tempo che non vale niente. Ed è in questo contesto che l’idea di lentezza comincia ad assumere un valore». La conversazione prosegue e finiamo a parlare dell’arte, dell’artista e della loro dignità. «L’artista è un lavoratore», sostiene Ascanio. «Partiamo dal fatto che un pittore che dipinge svolge un lavoro che non è differente da quello del muratore o del parrucchiere. Lo dico non per sminuire l’attività dell’artista, ma proprio perché se non la consideriamo un lavoro, non pensiamo che abbia una dignità». L’artista però fa qualcosa di diverso, perché gestisce la sua opera: se costruisse una macchina, questa non dovrebbe per forza camminare. Non gli è richiesta la certezza del risultato, non esiste un metro oggettivo per misurare ciò che produce. «L’arte – prosegue Ascanio – ha questo compito: non deve dare un messaggio politico, bensì scarnificare e raccontare l’estrema debolezza degli esseri umani».

Attenzione però, perché quando si parla di impegno politico bisogna stare attenti: «L’impegno politico è di una persona, ma io come artista non posso essere schierato perché il mio lavoro è un altro, la condizione in cui devo operare è un’altra. Poi è chiaro che il mio carattere e le mie idee finiscono per influire sulle scelte che faccio dal punto di vista artistico». Anche perché, almeno per Ascanio Celestini, l’oggetto della narrazione non è la condizione socio-economica della persona: «Per me non esiste un genere che possiamo definire teatro sociale, civile, politico o impegnato. Questi termini si sono logorati molto velocemente. Io non parlo degli operai, degli immigrati, dei detenuti o di chi vive un disagio psichico solo perché penso che sia giusto farlo. Ne parlo perché credo che la loro condizione sia la condizione di debolezza che meglio racconta l’essere umano».

Dal backstage chiamano Ascanio. Lo spettacolo inizierà fra poco, il pubblico sta per entrare in sala e intorno a noi è tutto un via vai di persone. Abbiamo tempo per un ultimo scambio di battute. Gli chiediamo se oggi vede dei mutamenti positivi nella gente, se c’è davvero qualcosa che sta cambiando nella nostra società. «L’Italia è un paese che sta migliorando tantissimo», ci dice con entusiasmo. «La retorica della crisi non funziona più. Il mercato della mia borgata è un bellissimo momento di socialità: ogni tanto qualcuno si lamenta che le cose vanno sempre peggio, ma non è così. Tu vedi una deriva? Può essere, ma questa deriva sarebbe molto più grave se non ci fossero tante persone che lavorano per fermarla. Detto questo, c’è una valanga di muffa da togliere, ma anche i nostri padri e i nostri nonni si sono trovati in queste condizioni e ce l’hanno fatta».

«Io mi ribello contro la convinzione che siamo la prima generazione che si trova in condizioni peggiori rispetto a quella che l’ha preceduta, perché credo questo sia solo un mantra del neoliberismo che cerca di convincerci che dobbiamo a tutti i costi andare avanti, dobbiamo crescere sempre, all’infinito. Adesso stiamo imboccando la via della decrescita: facciamolo! Ci manca solo una cosa: dobbiamo capire che ciò che accade per davvero non è quello che viene raccontato, ma è quello che succede a noi in prima persona e a ciò che ci sta intorno». Come dire: la palla ce l’abbiamo noi e il cambiamento dipende da quello che faremo, da quello che saremo e da nessun altro.

10/07/2015

da www.italiachecambia.org

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